lunedì 26 novembre 2007

[intervista] Alfonso Font

L'intervista ad Alfonso Font risale a un paio d'anni fa. C'era parecchio entusiasmo, allora. Il Museo del fumetto era stato inaugurato da poco e cominciavano ad arrivare i primi ospiti. Sembrava ci fosse un progetto condiviso e lungimirante. Sembrava. Insieme ad altri due amici e colleghi (Stefano Giuntini e Anna Benedetto) lavorammo per un breve periodo alla rivista Muf mag sotto la direzione e il coordinamento di Gianni Bono. Raccogliemmo interviste -come questa, realizzata proprio col contributo di Stefano e Anna- la maggior parte delle quali sono rimaste impresse su mini Dv. Se non sono mai state pubblicate e diffuse non è certo colpa nostra. Avrebbero dovuto arricchire un data base multimediale consultabile nelle sale del Museo e la rivista online del Museo stesso. Il rapporto si è interrotto senza alcuna spiegazione o chiarimento. Ma il materiale resta. Ho quindi deciso di recuperare le poche interviste pubblicate e -appena avrò un po' di tempo e se la tecnica me lo permetterà- metterò online anche quelle inedite. Sia per rispettare gli autori che hanno avuto la bontà e la pazienza di incontrarci e parlare con noi, sia perché i loro -anche se a distanza di molto tempo- sono racconti interessanti, degni d'esser letti.

Alfonso Font: l'intervista

di Gianluca Testa

Alfonso Font, il Museo Nazionale del Fumetto ti ha riconosciuto i meriti di una prestigiosa carriera dedicandoti una mostra. Cosa provi?
“È un momento importante. E se la mostra è organizzata da un amico tanto gentile come Gianni Bono non posso che essere soddisfatto”.

Prima del tuo arrivo in casa Bonelli godevi di una grande fama in Spagna e in Francia, ma in Italia eri poco conosciuto. Qual è stato il tuo primo approccio professionale con il nostro Paese?
“Sergio Bonelli mi avvicinò durante il salone del fumetto di Barcellona, per la prima volta nel 1994. Mi propose di realizzare un «Texone». Rifiutai. Non avevo tempo. Però mi resi disponibile per parlarne di nuovo. L’anno dopo il tenace Bonelli mi ripresentò la stessa domanda. Accettai. Il mio primo lavoro per l’Italia mi aspettava. Si trattava dello Speciale Tex numero 12, «Gli assassini». Lavorando a quell’albo ho riscoperto il piacere di disegnare. Per la prima volta non dovevo badare alla stesura della sceneggiatura e ho potuto così abbandonarmi al segno. Inoltre quel volume si prestava a un impegnativo esercizio di stile. Era stimolante: dalla prima all’ultima pagina le scenografie si sono alternate. Deserti, mare, isole… Ambienti sempre diversi e sempre nuovi. Come i particolari delle lampade, che avranno un ruolo fondamentale nella storia. Disegnarlo è stato un divertimento. Sono riuscito a poco a poco a evolvere anche la grafica. All’inizio lavoravo da professionista, ma non era sufficiente perché restavo troppo esterno alla storia. Sono entrato progressivamente nei personaggi, facendo mia la narrazione. E il risultato finale è stato superiore alle aspettative”.

Il rapporto con Bonelli non si è esaurito qui…
“Una volta concluso il «Texone», Sergio mi chiese di disegnare un almanacco. E l’ho fatto. Si tratta dell’Almanacco del West 2000, La legge del deserto. Sempre sceneggiato da Mauro Boselli ma con la copertina di Claudio Villa. Da quel momento ho cominciato a lavorare anche alla serie regolare”.

Come si riconosce un fumetto commerciale da un fumetto d’autore?
“A meno che non si tratti di un personaggio noto (come per esempio Tin Tin o Asterix e Obelix…), il primo si vende meglio dell’opera d’autore. Perché quest’ultimo non cerca il consenso nelle vendite, non la commercializzazione. È piuttosto un’opera intima, per pochi lettori. E spesso accade che per i temi trattati ci si rivolga solo a un pubblico di nicchia. Il prodotto commerciale cerca invece di farsi trovare attraente dalla maggior parte dei lettori”.

Hai realizzato anche le copertine dell’edizione spagnola di Dylan Dog. Perché l’operazione non ha avuto successo?
“Non conosco il segreto di un fumetto di successo. Possiamo però contestualizzare questa operazione. Quando Dylan Dog è stato pubblicato in Spagna, il Paese era già invaso dai fumetti giapponesi mentre quelli occidentali erano in calo vertiginoso. In questo momento abbiamo addirittura in Spagna scuole per imparare il Giapponese, perché tanta gente vuole leggere i manga. Quando facciamo il salone dei fumetti, la metà è dedicata ai manga, ma c’è addirittura un altro salone a Barcellona interamente dedicato ai manga. Si compra di tutto: libri, figurine, cartoline, pennelli, fischietti… Qualsiasi cosa purché sia fatta in Giappone si compra e si vende bene. E la gente, addirittura, ama comprare gli albi giapponesi in giapponese, che li devi leggere da destra a sinistra. E solo quello, per loro, è perfetto e meraviglioso. Penso che i manga siano stati per i fumetti occidentali cattivi quanto i videogiochi. Perché è un’altra forma di disegno che a un certo punto i nostri bambini si sono ritrovati a guardare alla televisione. Questo genere di disegno in cui le figure hanno occhi grandi e volti orientalizzati, metà orientali e metà occidentali… Le nuove generazioni si sono lasciate prendere da quello. E quando hanno avuto l’età per cominciare a leggere fumetti da adulti hanno preferito quelli giapponesi ai nostri, perché sono più abituati a quel sistema di disegno, di forma di comunicazione grafica”.

Si dice però che il manga abbia conquistato fette di mercato nuove, come quella femminile. Può darsi che abbia avuto una funzione di apertura verso il mondo del fumetto?
“Può essere, ma in Giappone esistono fumetti per tutti: puoi trovare fumetti dedicati ai giocatori di golf o all’equitazione. Voglio dire che si sono specializzati in tutti quei temi in cui c’è qualcuno che può essere motivato a leggere storie. In molti si trova ben presente l’elemento erotico, sessuale: questo è stato sicuramente un elemento che ha reso più attraente il manga, che ha inciso sul gradimento del pubblico”.

Quindi, proprio non ti piacciono…
“No, non mi piacciono: il disegno non mi comunica niente e le storie mi risultano un po’ troppo lontane, non mi riguardano, proprio nei riferimenti culturali. È un po’ come quando si leggevano le storie di Mao Zedong: benché avessero disegnatori cinesi eccezionali, in quello che raccontavano c’era qualcosa di «marziano». Potevi essere d’accordo con la maniera in cui disegnavano, ma non con le storie, perché risultavano lontane”.

Nasci come autore completo. Lavorando su soggetti non tuoi entri in contatto con altri sceneggiatori. Com’è il rapporto con loro?
“A volte può essere bruttissimo. Tutto dipende dalla capacità d’empatia. Di fronte a un nuovo soggetto pensi sempre a qualcosa che non va. A un personaggio dal carattere diverso, a una diversa ambientazione… Si compie sempre un’analisi soggettiva. Invece quando uno sceneggiatore ha un buon carattere, come il grande Mauro Boselli, ci si può confrontare senza il rischio di scontri violenti”.

Nella tua carriera, anche se per poco tempo, hai disegnato anche fumetti erotici. Penso per esempio a Carmen Bond…
“Il nome nasce dall’incrocio tra James Bond e Carmen Jones. Ho realizzato solo poche storie. Non avevo interesse all’erotismo. La verità è che in quel momento assecondai la richiesta del mio editore. Quel lavoro è stato pagato bene. E c’è stato perfino il riscontro dei lettori. L’erotismo funziona in tutti i linguaggi. Cinema, teatro, letteratura. E, appunto, fumetto”.

Ricordi il primo fumetto che hai letto?
“Certamente. Erano dodici tavole realizzate da un disegnatore spagnolo trasferitosi giovane a Parigi, dove ha vissuto tutta la sua vita. Si tratta di Antonio Parras. Era una storia di poco interesse. Ma per me ha significato tanto. Era il 1957. Si tratta di una storia di contorno di El Capitán Trueno. Un personaggio che in Spagna ha riscontrato quasi lo stesso successo di Tex in Italia. Non ho mai abbandonato quell’albo. Lo porto sempre con me. Lo conservo a casa, in una busta di cellophane. Se lo sfogliassi la carta si sbriciolerebbe fra le dita. È per me un oggetto prezioso, una reliquia. Per anni ho cercato un’altra copia sui banchi delle fiere e delle mostre mercato. Alla fine la perseveranza è stata premiata. L’ho trovato. E l’ho acquistato al prezzo che mi hanno chiesto, senza battere ciglio. Una privata soddisfazione”.

Un’ultima domanda: cos’è per te il fumetto?
“È la magia dell’immaginazione. Sono nato poco dopo la fine della Guerra civile spagnola. Noi bambini non avevamo niente per giocare o trascorrere il tempo. C’erano solo piccoli pezzi di carta disegnata. Costavano poche monete. Ma leggendoli si potevano raggiungere luoghi inimmaginabili. Allora giocavamo imitando Phantomas, El Capitán Trueno e tanti altri eroi a fumetti. Piano piano imparavamo ad amare quei personaggi. E amandoli abbiamo cominciato ad apprezzare anche quel tipo di linguaggio. Restavamo talmente affascinati da queste storie da non poterne più fare a meno. Ogni volta che riscopro i vecchi albi che leggevo da bambino mi emoziono. Fra qualche anno capiterà anche ai giovani lettori di oggi…”.

fonte: Muf mag

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