martedì 27 novembre 2007

[intervista] Sergio Bonelli

Sergio Bonelli durante l'inaugurazione delle mostre
allestite per l'edizione 2004 di Lucca Comics & Games

Confesso che telefonare a Sergio Bonelli non è stato facile. Forse perché non sapevo cosa mi sarebbe aspettato di lì a poco. Avremmo dovuto parlare di Alfonso Font. Così è stato. Almeno inizialmente. Poi siamo andati oltre con toni confidenziali e a tratti affettuosi. Quel timore carico di referenza si è dissolto nelle parole che a Bonelli non mancano mai, nella disponibilità che va oltre la misura, nell'apertura al confronto col primo giovane che gli fa squillare il telefono e alzare la cornetta. Lo ha fatto con l'entusiasmo di un esordiente. Eppure lui è Guido Nolitta. Un uomo consapevole dei suoi limiti, un uomo onesto. Ricordo le sue parole durante la consegna del premio Gran Guinigi, un paio di edizioni fa -o forse tre?-. "Premiate me?" chiese. "Ma se è più di un anno che non scrivo una sceneggiatura... Guardate quanti giovani ci sono qua in sala. Il premio va a loro". Questo è Sergio Bonelli. Uno come pochi.

Sergio Bonelli parla di Alfonso Font


di Gianluca Testa

Sergio Bonelli, perché fra tanti autori ha scelto di lavorare con Alfonso Font?
“Ero innamorato del suo tratto, del modo di disegnare. L’ho corteggiato e inseguito a lungo, raccogliendo ogni volta cortesi rifiuti a collaborare. In quel periodo Alfonso Font aveva troppo lavoro. Ci siamo incontrati la prima volta all’inizio degli anni Novanta, alla Fiera di Barcellona. Al tempo era considerata la «Lucca spagnola…»”.

Poi cos’è accaduto?
“L’insistenza è stata premiata e finalmente Alfonso ha accettato. Era il 1995. Dopo poco iniziò a lavorare sullo Speciale Tex numero 12, «Gli assassini», pubblicato nel luglio del 1998. In principio non fu semplice. A quel tempo Font lavorava a gran ritmo, soprattutto per il mercato francese. Là era già stato conosciuto e apprezzato per la serie Sandberg, père et fils, pubblicata dalla rivista Pif e realizzata in collaborazione con lo sceneggiatore Patrick Cothias. La sua fama, in Spagna, era ancora più grande. Non era solo una questione di identità nazionale. Buona parte del merito è per la qualità delle storie pubblicate dalla rivista Cimoc. E nonostante il fatto che Font fosse una personalità di rilievo, un grande illustratore e un disegnatore attento al fumetto d’autore, all’inizio avevo molti dubbi per il suo debutto in Italia”.

Cosa la preoccupava?
“Il suo stile. La stessa cosa di cui mi ero innamorato era causa di forti perplessità. Nel suo stile c’era infatti una matrice grottesca che il lettore italiano di Tex, così affezionato alle rappresentazioni realistiche, non avrebbe apprezzato”.

Alla fine è stato trovato il giusto compromesso…
“Font ha faticato parecchio per liberarsi dagli accenti grotteschi e ironici. Rinunciando a questi caratteri del suo stile ha dimostrato di essere un vero professionista”.

Scorrendo le pagine del “Texone” si nota una forte evoluzione del segno…
“Il tratto cambia all’interno dello stesso albo. Mantenere costante il registro narrativo non era cosa semplice. Accade anche che molti personaggi di contorno alla storia assumano tratti umoristici. A Font era sufficiente una piccola distrazione per ritornare a disegnare col vecchio metodo. E non potevamo certo controllare ogni tavola ricordandogli di evitare il disegno di nasi troppo tondeggianti e cose simili, tipiche del disegno umoristico”.

Dopo «Gli Assassini» Font ha cominciato a disegnare anche per la serie regolare. Era già tutto programmato?
“No. Volevo chiedergli di realizzare un solo «Texone», com’è accaduto per Jordi Bernet e altri. Dovevo mantenere una promessa fatta ai lettori: garantire per il meglio degli autori europei. Con noi Font si è trovato bene. E dopo la prima uscita ha continuato con la serie normale. È stato un un passaggio naturale. Sono felice di questa scelta”.

Sergio Bonelli e Renato Genovese durante l'inaugurazione
del Museo del Fumetto (Lucca, ottobre 2004)

Mi sembra di capire che tra lei e Font c’è un rapporto che va al di là della professione.
“Font è l’autore che ho conosciuto di più e meglio. Viene spesso a trovarci a Milano. A volte senza preavviso. Sono sempre piacevoli sorprese. Insieme abbiamo trascorso lunghi periodi in giro per il mondo, soprattutto in Spagna. Mi ha sempre trasmesso grande calore. Un bene raro che non ho mai trovato altrove. Di lui mi ha conquistato l’umanità, la serietà, la professionalità e il talento. Siamo entrambi contenti di quest’amicizia. E in questo mestiere è cosa rara. Per questo ne parlo volentieri. È il massimo che si possa chiedere. Purtroppo, lavorando a distanza, è possibile che con alcuni collaboratori – anche decennali – non ci si conosca mai troppo bene”.

Come giudica il rapporto tra Font e lo sceneggiatore Mauro Boselli?
“Ottimo. Si sono trovati subito d’accordo”.

E il giudizio dei lettori?
“Alcuni hanno manifestato il loro disappunto, lamentando una certa discontinuità. Font è stato inizialmente accolto con sospetto, anche perché in quegli anni era poco conosciuto in Italia. Poi li ha conquistati. Quasi tutti…”.

Quali sono i lettori scontenti?
“La minoranza. Rappresentano quella fetta di pubblico affezionata alla grafica tradizionale. Come quella di Aurelio Galleppini e di tutti gli autori realistici che si ispiravano ai grandi americani come Alex Raymond. Sono stati spiazzati da un autore all’avanguardia come Font. La stessa reazione era stata suscitata perfino da Giovanni Ticci, complice il suo tratto moderno. Alla fine quello che predomina è l’affetto per lo stile italiano tipico degli anni Trenta e Quaranta”.

fonte: Muf mag

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